Valutazione rischio partecipate pubbliche
Misurazione del rischio di crisi e sistemi di pianificazione e controllo nelle società a partecipazione pubblica
di Luigi Brusa
Valutazione rischio partecipate pubbliche: i nuovi obblighi introdotti dalla legge Madia
Nella recente normativa riguardante le società a controllo pubblico (D.Lgs. n. 175/2016 “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”) è previsto tra le altre cose che le società a controllo pubblico debbano predisporre speciali programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale e ne informino l’assemblea dei soci nell’ambito della relazione sulla gestione.
Si tratta di obblighi che riguardano quello che nella terminologia economico-aziendale viene definito il rischio economico generale d’impresa. Quest’ultimo è inteso come eventualità che l’azienda non abbia nel tempo una stabilizzata attitudine a rimunerare tutti i fattori produttivi e, a sua volta, si manifesta attraverso i vari rischi particolari (ad esempio rischio di mancato incasso dei crediti commerciali, rischio di portafoglio fornitori squilibrato, ecc.).
Le “soglie di allarme” proposte di Utilitalia
Tra le società a controllo pubblico, è rilevante lo sforzo di recente compiuto da Utilitalia (che riunisce imprese di Acqua, Ambiente, Energia), per individuare un numero limitato di indicatori e di “soglie d’allarme”, atti a segnalare “una situazione di superamento anomalo dei parametri fisiologici di normale andamento, tale da ingenerare un rischio di potenziale compromissione dell’equilibrio economico, finanziario e patrimoniale della singola Società, meritevole quindi di approfondimento”[1].
Nel caso specifico, le indicazioni possono così riassumersi:
1) la gestione operativa della società sia negativa per tre esercizi consecutivi in misura pari o superiore all’X% (differenza tra valore e costi della produzione: A meno B, ex articolo 2425 c.c.);
2) le perdite di esercizio cumulate negli ultimi tre esercizi, al netto degli eventuali utili di esercizio del medesimo periodo, abbiano eroso il patrimonio netto in una misura superiore all’X%;
3) la relazione redatta dalla società di revisione, quella del revisore legale o quella del collegio sindacale rappresentino dubbi di continuità aziendale;
4) l’indice di struttura finanziaria, dato dal rapporto tra patrimonio più debiti a medio e lungo termine e attivo immobilizzato, sia inferiore a 1 in una misura superiore all’X%;
5) il peso degli oneri finanziari, misurato come oneri finanziari su fatturato, è superiore all’X% .
Si chiede inoltre di calcolare, pur non considerandoli indici di rischio, ma come elemento di analisi del peso degli oneri finanziari, anche i seguenti indicatori:
6) l’indice di disponibilità finanziaria, dato dal rapporto tra attività correnti e passività correnti;
7) gli indici di durata dei crediti e dei debiti a breve termine [(crediti a breve termine/fatturato) * 360 e (debiti a breve termine/fatturato) * 360] .
Sempre secondo l’ente in questione, “le percentuali di riferimento dovranno essere individuate da ciascuna società in maniera coerente con le specificità proprie del settore di riferimento e con i principi di equilibrio economico – finanziario della gestione”.
Interpretando tale impostazione, si può dedurre che occorre predisporre un adeguato sistema di analisi di bilancio, intendendolo non solo come insieme di indici economico-finanziari, ma anche come capacità di interpretarli in chiave di gestione corrente (breve periodo) e strategica (lungo periodo), alla luce di parametri di riferimento non generalizzabili, ma definibili in modo mirato.
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Valutazione del rischio e sistemi di pianificazione e controllo di gestione
Tale approccio alla gestione del rischio di crisi costituisce un passo avanti rispetto a prassi aziendali a volte poco propense ad un monitoraggio tempestivo dei segnali di deterioramento degli equilibri di gestione e, più in generale, al sistematico controllo di gestione. Quest’ultimo significa non solo misurazione e monitoraggio dei risultati di gestione a livello d’azienda e di singoli sotto-sistemi (specifici servizi, tipi di utenza, centri di responsabilità, ecc.), ma anche (e soprattutto) individuazione, misurazione e monitoraggio dei driver o determinanti dei risultati stessi, in modo tale da chiarire le cause degli eventuali problemi e squilibri e intervenire in modo mirato e tempestivo su queste (non sui numeri!).
Quindi il sistema di “valutazione del rischio di crisi” fa parte di (o comunque va integrato con) un sistema direzionale più ampio, che è il controllo di gestione. Senza la sua collocazione nel sistema di controllo di gestione, un sistema di misurazione e valutazione del rischio basato su alcuni pur idonei indicatori comporta a sua volta un rischio: quello di segnalare che gli equilibri economico-finanziari-patrimoniali si stanno deteriorando quando è troppo tardi.
La “collocazione” degli strumenti di valutazione del rischio di crisi nel più ampio sistema di controllo di gestione non deve però far dimenticare che – a sua volta – quest’ultimo è parte integrante di un sistema più esteso, che è quello di pianificazione strategica e di controllo di gestione (P&C). In altre parole, qualsiasi risultato (e segnale d’allarme) si controlli, il processo di valutazione del rischio di crisi ha senso in quanto sia chiara la consapevolezza:
- degli obiettivi di fondo (di lungo periodo) della gestione
- delle linee-guida o idee di business per raggiungerli
- del modello di business specifico dell’azienda, con i fattori critici di successo e di rischio
- dei piani d’azione per attuare le linee-guida e il modello di business
- dei risultati economico-finanziari attesi in un arco di tempo pluriennale
che sono altrettanti elementi del piano strategico.
Naturalmente, la formalizzazione dei punti precedenti in un vero e proprio piano industriale non è alla portata di tutte le aziende, a maggior ragione quando queste non dispongano neanche di un sistema di controllo di gestione (con gli strumenti della contabilità analitica, del budgeting, del reporting, ecc.).
Tuttavia, la formulazione di “programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale”, richiesta dalla legge per le società a partecipazione pubblica, e l’assenza di qualsiasi forma di pianificazione di lungo periodo sono due cose in palese contraddizione. La formalizzazione del piano può essere più o meno rigorosa, ma nessuna azienda condotta secondo criteri di buona amministrazione di fatto può rinunciare alla chiarezza degli obiettivi e delle idee di business, alla consapevolezza delle variabili-chiave per avere successo o almeno sopravvivere, a qualche progetto per tradurre in pratica le intenzioni, a sufficienti capacità di preventivazione delle principali grandezze economiche e finanziarie. E, naturalmente, alla consapevolezza dei principali rischi che gravano sulla gestione e possono comprometterne gli equilibri.
Prendendo spunto da queste ultime brevi considerazioni sulla pianificazione strategica, possiamo ora tentare di focalizzare, al suo interno, il tema del rischio di crisi e della sua misurazione ex ante, attraverso idonei indicatori. Ciò di cui intendiamo parlare sono indicatori di rischio a monte delle misurazioni del tipo di quelle esemplificate poc’anzi, suggerite alle aziende che operano nel campo delle utilities. Vogliamo sottolineare che solo un sistema di indicatori a livello di piano strategico può costituire uno strumento corretto per gestire i rischi, perché il monitoraggio attraverso indici di bilancio o simili affronta il problema quando in molti casi è troppo tardi.
Pertanto, qui di seguito, parleremo di tipi di rischio rilevanti e di modo di esplicitarli a livello di piano strategico.
Piano strategico e rischi d’impresa
I rischi d’impresa, in base al loro grado di prevedibilità, controllabilità e gestibilità, si possono distinguere in tre grandi classi:
- rischi insiti nell’esecuzione di processi operativi standardizzabili (livello 3)
- rischi insiti nelle scelte strategiche di business o finanziarie (livello 2)
- rischi di eventi imprevedibili che mettono in forse la stessa esistenza dell’impresa (livello 1).
I tre livelli di rischio hanno rilevanza differente nelle analisi con cui si concretizza il piano strategico; in particolare, appare opportuno un risk scorecard dei fattori di livello 2, che funga da sistema di “allarme precoce” quando qualcuno degli obiettivi strategici sia in pericolo.
I rischi del livello 3 sopra citato sono in genere contemplati dai sistemi di Corporate Governance, insieme con tutti quei rischi, disciplinati e gestiti autonomamente dall’azienda (ad esempio mediante programmi di Total Quality Management), consistenti in “errori” nell’esecuzione di processi aziendali di routine e perciò standardizzabili. Essi possono essere gestiti essenzialmente attraverso la predisposizione e applicazione di procedure operative standard e di forme appropriate di controlli interni ed esterni.
Ben diverso è il caso, all’estremo opposto, dei rischi di livello 1, quelli che riguardano eventi imprevedibili, senza precedenti (almeno nell’arco di tempo considerato dalle analisi statistiche usate) o relativi a contesti non ritenuti comparabili a quello dell’azienda. Si tratta di rischi che mettono in forse la stessa sopravvivenza dell’azienda, e per questa ragione vengono definiti “esistenziali”. Si tratta di rischi come quelli sperimentati in ambito finanziario dalle imprese che si sono fidate di modelli quantitativi basati su dati storici che si spingevano fino a diversi decenni precedenti, durante i quali non si era però verificata nessuna significativa riduzione nei prezzi degli immobili. Oppure rischi di eventi politici, sociali, naturali tali da sovvertire fin dalle fondamenta la stabilità di paesi magari lontani, ma importanti per gli equilibri economici mondiali e delle singole imprese.
Rischi di questo tipo non possono ovviamente essere gestiti con gli strumenti del livello 3, né far parte integrante del piano strategico. Richiedono invece un grande coinvolgimento dell’alta direzione, del tipo di quello necessario nella fase in cui si valuta la validità di una strategia e – se necessario – la si rimette in discussione.
Il rischio di strategia: mappa strategica, FCS e FCR
Il rischio più interessante ai nostri fini è quello di livello 2 (rischio di strategia). Si tratta dei rischi che gravano sulla strategia prescelta dall’azienda e sulla sua attuazione, e in special modo dei rischi relativi ad eventi più o meno prevedibili e quantificabili, rintracciabili in quella parte del piano in cui si definisce il business model, o, come si dice, la mappa strategica di business (vedi supra). Questa è divisa in varie prospettive:
- della soddisfazione dei clienti o utenti e della collettività
- dell’equilibrio economico-finanziario
- dell’eccellenza dei processi di gestione
- del capitale umano e organizzativo.
In ciascuna di queste prospettive il business model non solo esplicita la strategia e ne guida l’attuazione mettendo a fuoco i fattori critici di successo (FCS), ma individua anche i rischi più significativi (FCR), vale a dire gli eventi più probabili e con l’impatto più negativo sulla strategia ed i suoi risultati.
È importante sottolineare, a questo riguardo, che:
a) ai fattori critici di rischio del piano strategico corrispondono opportuni indicatori, spesso non monetari, in grado di misurare a preventivo ed in itinere l’entità del fenomeno sottoposto a controllo;
b) non tutti gli obiettivi e i FCS della mappa strategica richiedono l’evidenza di un FCR, ma solo gli obiettivi maggiormente vulnerabili. Per fare un esempio, se tra i fattori critici di successo evidenziati dalla mappa strategica ne compare uno come “la stretta collaborazione con i fornitori, ai fini dell’efficace progettazione e realizzazione dei propri prodotti”, questo importante obiettivo rischia di essere compromesso dalla presenza di un portafoglio fornitori poco equilibrato, sia in senso quantitativo, sia in senso qualitativo (proporzione di fornitori “certificati” o comunque in possesso di certi requisiti tecnici, organizzativi, professionali). In circostanze come queste, il FCS riguarda ad esempio il tempo o la quantità di risorse dedicate al lavoro di progettazione in partnership con i fornitori, mentre il FCR citato è esprimibile in termini di “equilibrio del portafoglio fornitori” e quantificabile con un indicatore del tipo di “composizione % del volume degli acquisti all’interno del parco fornitori esistente”.
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Prof. Luigi Brusa
Studio Zamprogna & Brusa – Consulenza amministrativa e direzionale – Torino
Consulenza sul controllo di gestione
[1] Vedi www.utilitalia.it , Linee guida per la definizione di una misurazione del rischio ai sensi dell’art. 6, c. 2 e dell’art. 14, c. 2 del d.lgs. 175/2016.