Finalità del business plan
Il business plan per gestire l’impresa e per convincere finanziatori esterni
di Luigi Brusa
Il business plan per gestire l’impresa e per convincere finanziatori esterni
di Luigi Brusa
Due finalità principali caratterizzano il business plan: 1) guidare la direzione aziendale nella corretta realizzazione della strategia di business e 2) comunicare ai terzi potenziali finanziatori o investitori le idee imprenditoriali e le modalità della loro attuazione, per convincerli della convenienza economica del progetto. Se è vero che il business plan è – nella sua sostanza, e in particolare nei numeri finali – la stessa cosa, quali che siano lo scopo e i destinatari, tuttavia il suo contenuto informativo è bene che venga opportunamente differenziato.
Prima di entrare nel merito della differenziazione del business plan, accenniamo ad alcuni aspetti di contesto che esaltano l’importanza e delicatezza dello strumento e impongono di caratterizzarlo opportunamente a seconda degli scopi e dei collegati destinatari. finalità del business plan
Mai come in questi tempi la discussione in ambito politico ed economico ha messo l’accento sulla rilevanza di ciò che si chiama “visione” di chi detiene le leve del potere, sulla necessità di piani lungimiranti e ambiziosi e sulla adeguatezza di progetti attuativi analitici e credibili. Cioè su un mix di competenze e di requisiti largamente carenti nella realtà politica del nostro Paese. In più, oggi più che in passato si sottolinea il ruolo decisivo dei Decreti attuativi, il cui iter è lungo, complesso e tale da chiamare in causa un gran numero di soggetti, normalmente appartenenti ad organismi tecnico-burocratici, tipicamente ministeriali. finalità del business plan
Visione e idee di ampio respiro, piani e progetti proiettati nel lungo periodo, risultati attesi da piani e progetti sono l’essenza degli strumenti che il Governo e gli apparati tecnico-burocratici devono ad esempio impiegare per ottenere le risorse del Next Generation EU o di altri fondi europei. Nel mondo delle imprese hanno il loro equivalente in un sistema direzionale che favorisce un approccio imprenditoriale non improvvisato e le aiuta a risultare credibili nei confronti dei soggetti a cui chiedono mezzi di finanziamento per attuare i propri progetti di business. In questo secondo ambito – quello delle imprese – il mix di visione, piani, progetti, risultati attesi costituisce ciò che si chiama business plan. Il richiamo alla loro importanza in ambito privato può sembrare superfluo. La realtà del mondo delle imprese, ed in particolare delle PMI, non sempre è però aperta ad approcci manageriali innovativi (rispetto alle prassi correnti). In un contesto dove i rappresentanti politici e i loro apparati burocratici sono poco sensibili ad approcci lungimiranti e poco attrezzati come competenze per dare attuazione concreta alle idee, esistono premesse poco propizie a modelli di management molto orientati al futuro, nonostante le sfide del mercato e lo stimolo del profitto. finalità del business plan
La premessa “di contesto” di cui sopra non va ovviamente intesa nel senso che le imprese italiane non fanno il business plan e quando lo fanno lo fanno male. Qui bisogna distinguere tra imprese grandi e PMI. Le prime non possono non fare piani pluriennali e di solito sono professionalmente attrezzate per redigerli in modo efficace. Le PMI, cioè la maggioranza delle aziende, spesso si affacciano al modello e agli strumenti della pianificazione (e del controllo di gestione) quando vi sono “costrette” dai potenziali finanziatori o investitori o da particolari norme di legge. Riguardo a quest’ultimo fattore, si pensi solo alle disposizioni del Codice Civile e del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in materia di “assetti organizzativi adeguati” o di “indici di allerta”. Sovente non hanno però ancora maturato adeguata consapevolezza ed esperienza in materia. Nei casi migliori, una volta interiorizzato l’approccio e il metodo, ne fanno uso anche per scopi interni, cioè per guidare l’azienda e responsabilizzare eventualmente le figure-chiave aventi un ruolo manageriale. Negli altri casi, l’esperienza business plan rimane confinata alle esigenze di finanziamento e finisce lì, a meno che i portatori di capitale non ne impongano un uso sistematico.
Alla luce di queste osservazioni, è opportuno tentare una distinzione tra piano strategico per scopi di gestione e piano per scopi di finanziamento. Anticipando le conclusioni, restano fermi i risultati finali attesi (economici, finanziari e patrimoniali), ma cambia in misura non trascurabile il contenuto del piano. Il diverso contenuto non è solo un fatto formale, ma riguarda anche il grado di analisi di alcuni elementi del piano. È ovvio che la strategia di business rimane la stessa, ma certe analisi che sono necessarie per guidare imprenditore e manager alla sua implementazione non lo sono per i finanziatori/investitori esterni, così come altre analisi, indispensabili per chi non vive quotidianamente le vicende aziendali, sono superflue per la Direzione e i ruoli-chiave della struttura. In definitiva, il business plan è uno strumento di attuazione delle strategie aziendali, ma per fare ciò, deve essere prima ancora un mezzo di comunicazione opportunamente configurato a seconda dei suoi destinatari.
Prima di passare ai contenuti differenziati del business plan in funzione degli scopi perseguiti, precisiamo che in questo articolo focalizzeremo l’attenzione sul mondo delle PMI, che è quello che più necessita di un salto di qualità manageriale e, quindi, di adeguati strumenti di proiezione nel futuro lontano. Trascureremo invece, agli estremi opposti, le micro-imprese e le grandi imprese. Le prime perché, pur avendo estremo bisogno di strumenti che le aiutino a crescere, non possono permettersi sistemi troppo formalizzati e costosi per le loro dimensioni e caratteristiche. Le seconde perché i piani li fanno già e spesso (che non vuol dire sempre) sono ben consapevoli dei criteri da usare perché esperiscano tutte le loro potenzialità. In ogni caso, quali che siano le dimensioni aziendali, l’esigenza di differenziazione permane.
L’utilità del business plan per scopi interni “gestionali” è tanto più evidente quanto maggiori sono le dimensioni e la complessità aziendale (molteplicità di prodotti, clienti, aree geografiche, canali distributivi), nonché l’articolazione della struttura organizzativa e del corrispondente sistema di autorità-responsabilità. La maggior parte della letteratura manageriale e dei casi riportanti come “best practices” in materia di “strategy execution” si riferisce a grandi imprese e mette in luce come tali pratiche siano la vera chiave per il successo delle strategie di business. Ricerche compiute su larga scala mostrano che circa il 70% degli insuccessi strategici sono dovuti alla cattiva implementazione delle strategie, piuttosto che alla qualità delle strategie in sé. Cioè, in primo luogo, alla inadeguatezza del modo di concepire e costruire il business plan.
Per le PMI il fatto che la “necessità” del piano non sia a prima vista evidente non vuol dire che se ne possa tranquillamente fare a meno. Accettare che la pianificazione di lungo periodo sia un optional significa in pratica considerare l’azienda come un insieme di risorse e di competenze messe insieme per sfruttare opportunità di mercato e d’altra natura contingenti, senza ragionevoli prospettive di durabilità e di crescita. Cioè l’esatto contrario di un autentico approccio imprenditoriale-manageriale.
Come accennato nel paragrafo precedente, il modello e gli strumenti della pianificazione di lungo periodo difficilmente sono il risultato di una scelta spontanea e “sentita” da parte delle PMI. Una ricerca recente, pubblicata nel 2017 ed avente per oggetto PMI di vari settori operanti nell’area Nord Ovest del nostro Paese, ha mostrato alcuni risultati interessanti in materia di strumenti di P&C impiegati e di percezione della loro utilità da parte del management (pre-condizione questa di impatto positivo sulle performances aziendali). Mentre gli strumenti del controllo di gestione in senso stretto (incluso il budget) sembrano presentare un significativo grado di diffusione, di utilizzo effettivo e di utilità percepita dal management, gli strumenti più propriamente di pianificazione strategica mostrano uno scarso impiego (e conoscenza). Infatti, in corrispondenza a “voci” come “Balanced Scorecard”, “Indicatori di rischio”, “Mappa strategica”, cioè alcuni degli ingredienti più qualificanti del business plan inteso come strumento di guida, le risposte affermative (“sì, lo usiamo”) sono state percentualmente poche. Riteniamo non solo perché si tratta di etichette sofisticate e di contenuto obiettivamente ostico, ma anche perché le decisioni strategiche sono in larga misura supportate da strumenti del controllo di gestione, il cui orientamento è però tipicamente di breve periodo. E tale situazione, si noti, coinvolge non solo le aziende famigliari, meno dotate di risorse manageriali esterne, più aperte all’innovazione organizzativa e gestionale, ma anche le non-family firms.
Entriamo ora nel merito del business plan per scopi interni, cioè di guida della direzione. Ciò significa alcune cose che non sempre sono chiare.
In primo luogo, il business plan serve per attuare la strategia di business, non per crearla. L’ideazione della strategia è frutto di vari fattori, legati a doti imprenditoriali come creatività, esperienza, intuito e – si auspica – supportate da un adeguato bagaglio di informazioni su mercati e contesto tecnologico, economico-politico e legislativo. Il mix di questi fattori può condurre ad idee imprenditoriali potenzialmente vincenti, ma destinate all’insuccesso se non è chiaro ed esplicito il modo di tradurle in pratica. A questo punto interviene il business plan (per la strategia di business) e, più in generale, il piano strategico (che include anche la strategia finanziaria), con una duplice funzione:
Quindi il business plan è uno strumento di guida verso obiettivi di lungo periodo e, per fare questo, deve favorire una comunicazione interna che coinvolga i ruoli-chiave. Con ciò rende possibile – là dove le dimensioni lo permettono – anche un adeguato processo di responsabilizzazione. Ovviamente, nel vasto mondo delle PMI questo insieme di funzioni è fattibile nel caso delle medie imprese più che in quello delle piccole. In queste ultime, infatti, i ruoli autenticamente manageriali sono di solito riconducibili al solo capo-proprietario, che è il protagonista “esclusivo” o quasi di creazione e implementazione della strategia. Nelle medie imprese, invece, comincia a manifestarsi quell’articolazione del sistema di autorità-responsabilità e di delega che chiama in causa un numero limitato di figure manageriali e impone un business plan (e un sistema di controllo strategico) fatto non solo di linee-guida e di macro-scelte attuative (ad esempio, “in vista del raggiungimento di obiettivi di redditività dell’x% vogliamo estendere il nostro raggio d’azione in Asia stipulando accordi con imprese locali, aprendo nuovi uffici commerciali e offrendo prodotti rispondenti alla domanda del posto”), ma anche di sub-obiettivi e di fattori-chiave di successo (e di rischio) su cui fare leva per concretizzare le decisioni “macro” con idonei piani d’azione e progetti, coinvolgendo in prima persona coloro che detengono leve decisionali adeguate.
Ne deriva un business plan “per uso interno” che deve entrare nell’analisi di:
a) obiettivi e sub-obiettivi (tipicamente economico-finanziari)
b) fattori-chiave di successo (FCS)
c) piani d’azione e progetti attuativi.
I primi due ingredienti (a e b) costituiscono un modo essenziale e mirato di esprimere il modello di business. Senza questi elementi il piano rischia di contenere molte descrizioni (su prodotti, mercati, processi, canali, clienti, ecc.), senza l’esplicitazione di una catena logica che conduca coerentemente ai risultati finali attesi (contenuti nel bilancio preventivo pluriennale) e quindi senza una guida valida per chi il piano lo deve realizzare. In tale catena logica deve essere applicato un duplice principio: di selettività e di rilevanza (oltre che, ovviamente, di causalità). In altre parole, si selezionano i fattori veramente critici (cioè rilevanti) per il successo della strategia e si trascurano fattori che non richiedono particolare enfasi, perché già rientranti nel modello di gestione noto e condiviso da tutti i ruoli chiamati in causa nella realizzazione della strategia.
La catena logica sopra accennata può essere spiegata con un esempio. Una media azienda specializzata nella vendita presso propri negozi di abbigliamento femminile di fascia alta, rivolto a donne giovani in carriera, desiderose di distinguersi per il loro status e in cerca di esperienze di acquisto appaganti, esplicita il proprio percorso strategico così:
1) obiettivi di fondo e sub-obiettivi più diretti:
2) fattori-chiave di successo (alcuni)
3) progetti strategici per ottimizzare i FCS. Limitiamoci ad un esempio, riferito al FCS “approvvigionamento presso i fornitori di classe A”, di cui sopra, e denominato “Progetto di sviluppo dei fornitori di classe A”, che in estrema sintesi è articolato così:
Si tratta di un approccio non banale, ma neanche trascendentale come difficoltà, perseguibile anche da PMI, purchè sufficientemente motivate e supportate da risorse professionali interne o esterne, che poggia sulla ricerca dei fattori-chiave da cui dipendono le performances attese (che significa che non tutte le variabili influenti vengono considerate) e sulla consapevolezza dei nessi causali che li legano. Molto schematicamente il business model dell’esempio può raffigurarsi con questa “mappa”:
Un aspetto che può rivelarsi decisivo per il buon esito di un approccio come quello descritto è la misurazione di obiettivi, sub-obiettivi e fattori-chiave, con indicatori sia monetari (ad es. il ROI) che extra-contabili (ad es. la % di acquisti da fornitori di classe A). Quindi affiancando la Mappa Strategica sopra raffigurata con un set di indicatori di risultato, comunemente denominato Balanced Scorecard. Ciò per evidenti ragioni di efficacia come strumento di guida, sia nei confronti dell’alta direzione, che verso le eventuali figure organizzative con responsabilità non meramente operative.
La misura dei risultati finali economico-finanziari attesi – come è ovvio – non scaturisce automaticamente dalla esplicitazione del modello di business (i punti a e b) e dei piani d’azione/progetti (il punto c). Tuttavia elementi di questo tipo, opportunamente individuati e collegati tra di loro, facilitano molto la misurazione economico-finanziaria dei risultati futuri, focalizzando meglio l’attenzione sui loro driver (ad esempio quelli che definiscono la “formula” per stimare i ricavi) e la sottraggono al rischio del libro dei desideri o delle illusioni. Sotto un altro aspetto, forniscono un sentiero da percorrere, cioè una mappa o uno strumento di guida per dare attuazione concreta al disegno strategico.
Se di rado le PMI – di per sé – sono motivate a redigere sistematicamente il business plan per guidare la realizzazione della strategia, assai più spesso sono tenute a farlo per rispondere alla precisa richiesta di potenziali finanziatori o investitori esterni, a cui si rivolgono per ottenere i capitali necessari a finanziare i propri progetti strategici. In questi casi il business plan non è più un optional (farlo o non farlo) e non di rado laPMI si trova in difficoltà per carenze organizzative e culturali.
Non esiste nella realtà aziendale un modello di business plan per rispondere alle richieste dei soggetti esterni. A volte sono questi ultimi – inclusi anche soggetti pubblici come il Ministero dello Sviluppo economico, le Regioni e, naturalmente, l’UE – a imporre o suggerire documenti aventi un certo contenuto e forma. Spesso vengono formulati dei questionari, a cui l’impresa deve rispondere, prima di arrivare all’output finale, cioè al bilancio preventivo pluriennale suddiviso nelle sue tre parti: economica, finanziaria e patrimoniale. Gli stessi software, sempre più diffusi, da usare “liberamente”, cioè quando non viene imposta una struttura predefinita di piano, articolano il documento in una parte “descrittiva” o “testo”, predefinita e da completare, e in una quantitativa finale.
La parte cosiddetta descrittiva del business plan per informare i terzi può avere un contenuto molto variegato. A titolo meramente esemplificativo e raggruppando molto le voci, la lista delle domande include come minimo:
Come è evidente, questi e altri sono punti di grande rilevanza per comunicare ai terzi potenziali finanziatori/investitori:
Una caratteristica comunemente riscontrabile nell’ampia casistica di questa tipologia di business plan è la descrittività (cosa di per sé non negativa, se fatta con chiarezza), a volte supportata da molte tabelle e grafici, ma, nello stesso tempo, con un limitato sforzo per collegare i vari elementi tra di loro e con i risultati attesi (cosa invece non altrettanto positiva). A sostegno di questa affermazione, si potrebbero citare decine di esempi, che qui è impossibile riportare per ragioni di spazio. Occorre solo domandarsi se:
Si tratta di domande fondamentali, alle quali tentiamo di dare una sintetica risposta.
Alla prima domanda si può rispondere riflettendo sul fatto che i “terzi” non vivono quotidianamente le vicende aziendali, come fanno invece imprenditori e manager, e quindi hanno bisogno di conoscere adeguatamente dati e informazioni che in buona parte sono invece già noti ai soggetti aziendali e che appesantirebbero inutilmente il business plan “per scopi interni”. Quando la struttura del business plan non è obbligata o pre-definita ed esistono sufficienti margini di discrezionalità nell’impostare i contenuti della parte descrittiva, il criterio fondamentale è quello di selezionare adeguatamente gli aspetti d’azienda e di mercato da porre in luce, individuando e descrivendo quelli veramente rilevanti per mettere i terzi in condizione di apprezzare potenzialità e limiti della strategia perseguita.
Non esistono al riguardo ricette preconfezionate, ma sarebbe in primo luogo buona norma distinguere ciò che è informazione sull’esistente da quanto è invece espressione del disegno strategico da perseguire nell’arco di tempo futuro considerato, incluso il modello di business e i piani d’azione. Inoltre, diversi dati e informazioni del primo tipo, non immediatamente essenziali per mettere a fuoco l’azienda agli occhi esterni, potrebbero essere contenuti in appositi allegati, che integrino e non appesantiscano la lettura di ciò che l’azienda intende fare in futuro (che è il vero business plan). Infine, anche se la struttura per l’esterno rifugge le schematizzazioni tipiche di una “mappa strategica” (vedi supra), lo sforzo di classificazione e collegamento tra i molti elementi descrittivi del piano per i terzi non può essere un optional.
Un utile strumento di collegamento tra le due parti (l’esistente e il futuro) potrebbe essere la cosiddetta “matrice SWOT” (che è una fotografia dei punti di forza e di debolezza, opportunità e minacce), spesso riportata nei business plan, ma non sempre “collocata” nel modo e nel posto giusto.
Sulla seconda domanda si può dire che il modello “per l’interno”, con il suo approccio teso a razionalizzare il comportamento direzionale (linee-guida ->obiettivi -> sub-obiettivi -> fattori-chiave -> piani d’azione -> risultati attesi) non è esattamente plasmato sulle caratteristiche ed esigenze dei destinatari “terzi” del piano, i quali necessitano di:
In sostanza, il business plan “per l’esterno” richiede, rispetto a quello “per l’interno”:
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